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Il primo giro non si scorda mai

Il primo giro non si scorda mai

di Carlo Delfino

Quando il 24 agosto 1908 sulle pagine della Gazzetta dello Sport apparve la notizia che anche l’Italia, sulla scia di quanto già accadeva in Francia, avrebbe avuto il suo Giro ciclistico, gli organizzatori non avevano la certezza che l’iniziativa sarebbe andata a buon fine. Nonostante le capacità organizzative già espresse nelle corse in linea dei primi anni del XX secolo, da più parti si nutriva un certo scetticismo, ad esempio sul piano finanziario. Era stato abbastanza difficile, infatti, reperire i premi in denaro; si erano ottenute donazioni varie (il Corriere della Sera, la Lancia, l’U.V.I., …), premi in natura di un certo valore (casa Reale, Swuft, Wolber…), spazi pubblicitari (Stucchi, Atala, Pirelli, Horicke…), ma il montepremi da preparare era ingente. Un’idea geniale – avanti decenni rispetto ai tempi – fu quella di far “sponsorizzare” i cartelli indicatori dai Comuni e dalle realtà sociali coinvolte dal passaggio della corsa. L’incarico di cercare sottoscrittori che potessero comprare i diversi cartelli segnaletici a un prezzo variabile dalle 10 alle 25 lire, venne affidato al Touring Club Italiano, Ente per sua stessa natura agevolato da una capillare organizzazione e da una perfetta conoscenza del percorso.

Il percorso

Definire il percorso non fu semplice. Moltissime città avanzarono subito la propria candidatura ad essere sede di tappa, accampando le benemerenze sportive più varie o vantando tradizioni ciclistiche particolari. Le città di tappa, però, non potevano certo essere troppe, e le tappe non potevano essere eccessivamente lunghe. Nel progetto iniziale era prevista addirittura una sosta a Nizza e in un primo tempo si parlò anche di Trento e Trieste, città vicine ed amiche nella nostra storia patria.

Il regolamento

Altro problema fu quello di definire il regolamento: doveva dare garanzie di equità e sicurezza senza creare intoppi e problemi eccessivi alle giurie che avrebbero avuto il loro bel da fare a seguire i concorrenti – concorrenti che, per la cronaca, vennero tutti fotografati per essere perfettamente riconoscibili, al fine di scongiurare scambi di persona o trucchi del genere. Alla fine, si optò per lo stesso regolamento del Tour francese del 1908: la classifica a punti (1 al vincitore, 2 al secondo e così via), e la macchina punzonata alla partenza. I controlli, alcuni dei quali anche segreti, furono affidati al Touring Club Italiano di Via Monte Napoleone e ai suoi referenti sparsi su tutto il territorio. Pochissime le auto al seguito: le Case ciclistiche avrebbero dovuto provvedere in proprio, mentre l’organizzazione, la giuria e i giornalisti avrebbero dovuto dividersi da buoni amici i pochi posti liberi su quattro o cinque vetture messe a disposizione dal giornale organizzatore. Furono allertate società sportive locali e istituzioni in modo da avere dei referenti per quanto attinente l’arrivo, la sicurezza e l’ospitalità dei corridori. Le iscrizioni si chiusero improrogabilmente il 6 maggio 1909 alle ore 16,00.


La corsa

Il via storico, possiamo dire così, fu dato a Milano giovedì 13 maggio 1909 alle ore 2.53. Le Case ciclistiche si erano date da fare per assicurarsi, a suon di bigliettoni, prestigiosi atleti del pedale. L’Atala, ad esempio, schierava Luigi Ganna – recente vincitore solitario della Milano Sanremo – e l’astuto ciclista Pavesi; Galetti e Cuniolo erano i capofila della Rudge, mentre Gerbi e Rossignoli lo erano della Casa ciclistica Bianchi, che annoverava tra le sue fila anche il velocista Beni e il regolarista Canepari. La Prinetti e Stucchi si assunse l’onere di “importare” dalla Francia nientepopodimeno che Petit Breton, Pottier e Trousselier. Sbaglierebbe, quindi, chi pensasse che la prima edizione del Giro d’Italia venne corsa da una pattuglia di sbandati, mal attrezzati, mal vestiti, con biciclette primordiali su strade impossibili. Viceversa, ai ciclisti le Case fornirono un’assistenza di prim’ordine, e i corridori non erano pivellini, avevano già conoscenze tecnico-tattiche avanzate e perfezionate dalle precedenti partecipazioni alle corse d’oltralpe e alle classiche italiane. Canepari, Pavesi, Ganna, Galetti, Gerbi e molti altri, avevano già masticato parecchia polvere ed avevano assaggiato la scarsa considerazione che il ciclismo italiano riscuoteva oltre confine.

Durante il Giro

Episodi salienti della prima tappa – che chi vuole approfondire troverà in varie pubblicazioni legate al ciclismo eroico – furono: la caduta di Petit Breton che dovrà in seguito ritirarsi per le conseguenze subite, e il dramma di Gerbi che, dopo poche centinaia di metri, a causa di un guasto tecnico che gli fece perdere quasi tre ore per le riparazioni prescritte dal rigido regolamento (impossibile sostituire la bicicletta), sarebbe rimasto fuori dai giochi della classifica. Nel corso delle prime tappe, tra i concorrenti che presero il treno (regolarmente smascherati), tra quelli che vennero squalificati per via delle soste in trattoria (per sconfiggere la fame e la fatica) e infine tra quelli che subirono l’assalto di puledri al pascolo, il piccolo Galetti si instaurò provvisoriamente in vetta alla classifica. A Roma, però, Luigi Ganna salì sul podio, e vi restò fino alla fine del Giro, osannato vincitore. Vittorioso per eccellenza fu il pubblico, fu la gente, furono gli appassionati di ciclismo in gran numero scesi per le strade della Penisola a veder passare la corsa. Attorniato da tanto entusiasmo il Giro crescerà, e negli anni successivi si nutrirà di sentimenti irredentistici e di eroici interpreti di leggendarie imprese: Girardengo sarà il “primo campionissimo”; Binda farà sembrare tutto facile; Bartali e Coppi associeranno il loro volto alle “maglie rosa” della rinascita, mentre Gimondi e Merckx rinverdiranno epiche sfide proiettate nell’immortalità di un gesto sportivo che va al di là del contingente. Una gioia contagiosa e miracolosa, uno spettacolo che si ripete da cento anni, che vede l’incontro di atleti e tifosi quasi sulla porta di casa, nelle strade di tutti i giorni. Una “festa di maggio”, come disse qualcuno. Chi corre il Giro corre sempre nella storia.


 Il vademecum del Giro

Per “i tipi” dello stabilimento tipografico Reggiani di Milano, venne dato alle stampe il primo “Garibaldi” del Giro d’Italia, un volumetto di 108 pagine con inserti pubblicitari, fotografie, dettagliate altimetrie e planimetrie delle tappe previste. Naturalmente, non mancavano al suo interno le “cronotabelle”, la lista dei nomi del Comitato d’Onore, e i riferimenti storico-turistici delle località attraversate. Il “Garibaldi”, insomma, era un prodotto editoriale di alto livello che niente aveva da invidiare agli attuali lavori curati ottimamente da Giuseppe Figini per conto della R.C.S.


Qualche curiosità sui partenti

  • Primo ad iscriversi al Giro fu lo sconosciuto Felice Peli di Sarezzo il quale, quindi, ebbe il privilegio di indossare il “numero 1” – che oggi invece siamo generalmente abituati a vedere sulla schiena del vincitore dell’anno precedente.
  • Romolo Buni, con i suoi 38 anni, fu il più “vecchio” concorrente al Giro.
  • Il cecinese Arnolfo Galoppini corse su una bici di sua fabbricazione denominata “fulmine”.
  • Una sparuta pattuglia di corridori romani rappresentò i “girini” più meridionali.
  • Il piacentino Mario Pacchiarotti gareggiò con lo pseudonimo di Henry Heller per non incorrere nelle ire paterne.
  • Numerosi furono i corridori individuali, ciclisti gareggianti sforniti di ingaggio, che dovettero pagare di tasca loro le 10 lire di quota d’iscrizione.

    (Articolo pubblicato su La Gazzetta dell’Antiquariato n. 231 – Ottobre 2016)

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